Era il mese di agosto del 1474 quando nel paesino canavese di Levone ebbe inizio un processo per stregoneria nel quale vennero coinvolte quattro donne levonesi. I loro nomi erano Antonia de Alberto, Francesca Viglone, Bonaveria Viglone e Margarota Braya. Le quattro donne vennero arrestate e rinchiuse nelle prigioni del castello di Rivara, poco distante da Levone, e qui ebbe inizio il loro supplizio. Una delle donne, Margarota, riuscì inspiegabilmente a fuggire. Era la più giovane, forse era bella, forse venne aiutata, e di lei non si seppe più nulla. Bonaveria, invece, venne tenuta prigioniera per circa un anno, il suo nome compare ancora nel secondo processo, quello di Rivara, del quale mancano le documentazioni finali, per cui di lei non si conosce la sorte. Le prime due, Antonia e Francesca, sulle quali pendevano 55 capi di accusa, vennero giudicate colpevoli e condannate a morte. Il giorno 7 di novembre 1474 furono messe al rogo e bruciate sulla sponda sinistra del torrente Malone, fra Levone e Barbania.
Vennero date alle fiamme vive, coscienti, legate sul greto del torrente, fra i sassi. Le fiamme a riflettersi sulle acque agitate.
La documentazione del loro processo è arrivata a noi intatta. Ritrovata per caso dallo studioso Pietro Vayra a metà del 1800 venne dapprima tradotta e pubblicata da lui, nel 1874, e poi riproposta e ampiamente commentata, con l’aggiunta delle fotografie delle antiche pagine originarie, da Pier Luigi Boggetto, nel suo libro uscito pochi anni fa Le streghe di Levone. Fra realtà e mito.
La lettura dell’intero processo, con i suoi 55 capi d’accusa – perlopiù ammascamenti e uccisione di bambini, mentre le donne erano più probabilmente dedite alla cura delle malattie e, forse, erano levatrici – mostra la tipica follia inquisitoriale dell’epoca, che tuttavia spesso sopravvive anche oggi, in forme talvolta diverse, talvolta sorprendentemente simili.
A chi fosse interessatə a leggere gli atti consiglio vivamente il libro di Boggetto, da affiancare se possibile a quello di Vayra, purtroppo difficilmente reperibile.
Per quanto riguarda la mia ricerca inerente la stregoneria tradizionale e storica, mi soffermerò sui punti che ritengo più interessanti.
Il primo riguarda un motivo che ha radici profonde ed è legato ad antichi culti e rituali, probabilmente di origine sciamanica: la ricomposizione delle ossa degli animali consumati durante la sinagoga – come nel processo viene definito il sabba – e la loro successiva rinascita.
Si tratta di un dettaglio che compare in diversi processi per stregoneria – primo fra tutti, quello istituito contro Pierina de Bugatis e Sibillia Zanni a Milano nel 1390 – e spesso vede la presenza di una figura femminile semidivina a guidare il sabba – la Domina ludi, o Domina cursus, o Madama Oriente – la quale ha il potere di resuscitare gli animali uccisi e mangiati, ricomponendo le loro ossa, riposte accuratamente nella loro pelle e toccandole con una bacchetta di legno.
Interessante è la presenza di questa reminiscenza nel processo canavesano contro Antonia e Francesca, in un paesino piccolo e isolato come Levone.
Così attesta infatti il quarantatreesimo capo di accusa:
“(…) E dopo di aver ballato al modo solito, alcuni di essi andarono ivi presso in una mandria ove presero due manzi, che furono scorticati nello stesso prato Aviglio, e stregati ed ammaliati in modo che dovessero morire fra breve tempo determinato. Dopodiché ne ebbero mangiate le carni uno della società proclamò che tutti quelli delle ossa le presentassero, le quali involte nelle pelli dei manzi dissero: “Sorgi, Ranzola”, ed i manzi resuscitarono.” (1)
Nel processo di Levone non è indicato chi esattamente, nella società, abbia compiuto l’atto di ricomposizione delle ossa e resurrezione dei manzi, come avviene in altri documenti. A questo proposito occorre dire che, pur considerando che i processi per stregoneria contengano molti avvenimenti mai accaduti, manovrati dagli inquisitori ed estorti con la tortura, il ripetersi degli stessi motivi nelle documentazioni provenienti da processi diversi delinea uno schema e suggerisce che non tutto ciò che è riportato sia relegabile alla fantasia. Come molte sapienti dicono, in ogni leggenda vi è sempre un fondo di verità.
La ricomposizione delle ossa e la vita restituita agli animali consumati durante le feste delle streghe è un elemento che richiama origini antiche, e ricorda il potere che avevano quelle entità femminili, spesso vecchie, ambigue, talvolta dall’aspetto terrificante – come la Perchta o Berchta, non a caso definita spesso la Madre delle Streghe o la Regina delle Streghe e riconducibile alla Domina ludi sopracitata – che presiedevano alla morte e alla rinascita e operavano con i simboli della morte più potenti: le ossa.
Che simili reminiscenze precristiane siano rimaste anche nella zona canavesana? Se è avventato accertarlo, altrettanto lo sarebbe negarlo.
Il secondo punto interessante, è la presenza, accanto alle masche levonesi, di uomini-demoni personali. Le quattro donne dichiaravano infatti di avere ognuna il proprio demone. Forse si trattava semplicemente di uomini che le accompagnavano al sabba, e si accoppiavano con loro, forse rappresentavano qualcosa di più. Le accusate – a parte Margarota che era fuggita – li nominarono più e più volte. L’uomo-demone di Antonia si chiamava Pietro, quello di Francesca si chiamava Giacomo, mentre Giovanni era l’uomo-demone di Bonaveria. Durante il processo le donne ammisero di essere state visitate dai loro demoni nelle prigioni del castello, e di essere state messe in guardia da loro perché non confessassero. Se non avessero confessato, o avessero ritrattato le confessioni, loro avrebbero potuto liberarle. Questo chiaramente non avvenne.
In alcuni capi d’accusa registrati, le donne rivelarono che il loro demone era presente nella stanza dell’interrogatorio, nella forma di un animale.
Dal capo di accusa numero 27 si apprende che Gabriele, il demone di Francesca, talvolta era un bel fanciullo, mentre durante il processo le apparve in forma di montone nero; dal capo di accusa numero 34 si legge che, sempre Francesca, “confessò che vedeva Gabriele di lei maestro demonio infernale, il quale era sopra uno dei merli in forma di un gran corvo e le faceva segno di non deporre.” (2)
Gli uomini-demoni canavesani potevano quindi assumere forma di animali, spesso neri. Le streghe canavesane stesse si diceva assumessero a loro piacimento la forma di animali, che in questo contesto cambiavano non tanto da strega a strega, ma da zona a zona. Divenivano pecore soprattutto a Sparone, Forno e Frassinetto, capre in Valle di Gallenga, maiali a Cuorgnè, volpi a Frassinetto, gatte in Valle Soana, e altri animali ancora in altre zone. (3)
Un ultimo punto su cui mi soffermo – un altro richiederà un breve intervento a parte, in quanto elemento comune a più processi e per me molto significativo per lo studio delle parole – è la formula di chiusura di ogni singolo capo di accusa. Forse, fra tutte le imputazioni tanto inquietanti quanto improbabili rivolte alle streghe, questa formula è ciò che davvero incute paura e sconcerto.
Ogni atto si conclude così:
“E ciò esser vero, notorio e manifesto, come dimostrano la fama e voce pubblica.” (4)
Nessun fatto certo, nessuna dimostrazione, nessuna prova. Quello che definisce ciò che è “vero, notorio e manifesto” sono la fama e la voce del popolo.
Non che negli altri processi le cose andassero diversamente o in modo migliore – a parte quando venne introdotto almeno il diritto alla difesa, con i relativi testimoni e avvocati – ma in questo, la dicitura è chiara e sconcertante. Ed è ciò che causò, in parte, la sorte di tante donne come Antonia e Francesca: la voce pubblica. In una parola: dicerie.
Dicerie provocate spesso da invidia, odio, ripicca, vendetta, o semplice “sentito dire”. Pettegolezzi del popolino, a condannare al rogo donne che, forse, avevano cercato di guarire una malattia, di far nascere un bambino, o che semplicemente avevano rivolto uno sguardo gentile e una carezza a un pargolo in fasce. Il tocco della strega se poi quel bambino, per mille ragioni diverse, si ammalava e moriva. A definirlo, la fama e la voce pubblica. Vera, notoria e manifesta.
Quanto di meno veritiero e di più spaventoso possa esistere.
Il processo alle streghe, o masche, di Levone è un documento importante, uno dei più importanti del Piemonte, in quanto pervenutoci intatto e completo.
Antonia e Francesca, soprattutto, ebbero una sorte terribile, comune a moltissime altre donne come loro. Eppure non sarebbe giusto ricordarle solo attraverso i loro capi d’accusa, o attraverso il riverbero delle fiamme del rogo.
Ricordiamole per ciò che sono state, per il bene che forse hanno fatto, per la conoscenza che forse avevano avuto, e condiviso.
Che il loro spirito abbia trovato pace, e possa continuare a vivere in coloro che sono venute dopo. Allora come oggi.
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Per chi volesse leggere il resoconto del mio recente viaggio a Levone, potete trovarlo nel mio diario di viaggio, qui.
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Note:
1. Cfr. Pier Luigi Boggetto, Le streghe di Levone. Fra realtà e mito, Hever Edizioni, Ivrea, pag. 53.
2. Ibidem, pagg. 45, 64.
3. Ibidem, pag. 67.
4. Cfr. l’intero processo trascritto in Pier Luigi Boggetto, op. cit., pagg. 31-64.
Bibliografia
Boggetto Pier Luigi, Le streghe di Levone. Fra realtà e mito, Hever Edizioni, Ivrea, 2019
Centini Massimo, Streghe in Piemonte. Pagine di storia e di mistero, Priuli e Verlucca, Torino 2018
Sommo Pier Carlo, Storie piemontesi: le streghe del Canavese tra leggenda e atroci verità, 11 Gennaio 2021
Vayra Pietro, Le streghe nel Canavese o Due processi dell’inquisizione, Piemonte in Bancarella, Torino, 1970

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