Uno degli elementi presenti in molti processi per stregoneria è la presenza di uomini-demoni ai quali le donne accusate promettono fedeltà, ai quali volenti o nolenti ubbidiscono, dai quali – se non ubbidiscono – ricevono minacce e percosse, e con i quali si recano al sabba e si congiungono sessualmente. Questi uomini-demoni spesso promettono loro ricchezza e benessere, eppure le donne altrettanto spesso ammettono di non aver ricevuto nulla di ciò che era stato loro promesso; inoltre la descrizione fisica che le streghe danno dei loro demoni si presterebbe molto di più a semplici uomini, piuttosto che a creature provenienti dagli inferi che per questo motivo dovrebbero mostrare caratteristiche quantomeno straordinarie.
È mia convinzione che coloro che in molti processi vengono definiti demoni, e che le streghe stesse chiamano in questo modo – forse perché credono che lo siano veramente, o perché vengono indotte dall’inquisitore a crederlo – fossero in realtà niente più che semplici uomini. Uomini dall’aspetto ordinario, spesso mediocre e poco piacente, ma comunque fin troppo comune. Uomini che si fanno passare per qualcosa che non sono e approfittano di donne spesso sole e infelici, promettendo loro cose che, di fatto, non possono poi procurare. Uomini dispotici che, se non ubbiditi, diventano violenti. Uomini molto più normali di quanto credano di essere. Ne conosciamo di uguali anche oggi, e no, non sono demoni dell’inferno, sono solo piccole, abbiette creature umane.
Studiando i processi per stregoneria non si può non notare che molte delle donne accusate siano ingenue e di poca cultura, pertanto non è possibile definire cosa di ciò che confessavano fosse estorto con la forza o inventato, e cosa esse credevano realmente di aver commesso. Talvolta sembra che l’accusata sia fermamente convinta di uccidere con un tocco, con uno sguardo, con una parola, e in certi casi ne sia anche orgogliosa – come nel caso di Margherita Fornasari di Venegono Superiore e di Giovanna Motossa di Rifreddo – pertanto viene da pensare che esse credessero anche di essere accompagnate da veri demoni, mentre coloro che incontravano, e che si approfittavano di loro, non erano che uomini turpi e scaltri.
In questa riflessione cerco di dimostrare, con l’aiuto di alcune citazioni, questa teoria – non assoluta ma comunque ragionata e verosimile.
Nel processo alle streghe di Venegono Superiore, in particolare, queste sono le parole che Caterina Fornasari pronuncia quando l’inquisitore la interroga in merito al demone che serve e a cui si concede:
“Interrogata, in che modo e quando fu indotta al male come sopra, risponde: che dopo la festa di Natale due donne, Elisabetta Oleari e Tognina del Cilla, la convinsero in questo modo dicendo: “Vogliamo che tu venga con noi”.
Questo fu di sera, circa alla terza ora di notte. Caterina accettò di andare con loro e aggiunge che andarono alla sorgente del Fontanile (…), dove trovarono un uomo di mezza età, vestito di scuro, che aspettava sulla strada. Le sue compagne, Tognina e Elisabetta, la persuasero con molte parole, dicendo:
“Vogliamo che tu prenda questo uomo come amante e compagno.”
Interrogata, se sapeva chi fosse e da dove venisse l’uomo, risponde: di no.
Interrogata, se aveva saputo il di lui nome da qualcuno o qualcuna, risponde: che si chiamava Martino.
Interrogata, dove e da chi lo avesse saputo, risponde: da lui stesso.
Interrogata, se fosse vero uomo o demonio, risponde: al momento lei non sapeva che lui fosse un demonio.
Interrogata, chi credeva che fosse, risponde: credeva che egli fosse uno del suo stesso ceto e condizione, ossia un lavoratore.
Interrogata, su cosa le disse Martino, risponde: che le disse che, se lo accettava come amante, avrebbe avuto giorni felici e lui non le sarebbe mai mancato.
Interrogata, se acconsentì e accettò la proposta, risponde: accettò, persuasa dalle compagne.
(…)
Interrogata, se, sollecitata dalle compagne, fece dell’altro, risponde: solo un’altra volta, dopo pochi giorni del fatto precedente, andò, con Antonina [Tognina del Cilla] e Elisabetta Oleari, alla strada per Milano dove trovò due uomini, almeno a lei tali le sembravano, uno giovane e l’altro di mezza età, e sul posto, persuasa dalle compagne, si congiunse carnalmente con il più giovane, che asseriva di essere il suo Martino, con il quale si era già unita, anche se dall’aspetto le sembrò più giovane di quando si era unito con lei la prima volta.” (1)
La povera Caterina risponde con sincerità – per quanto possibile data la situazione – alle domande dell’inquisitore. Asserisce che le era sembrato di aver incontrato un uomo, simile a lei in quanto lavoratore, e che inizialmente non aveva capito che fosse un demone. La sua ingenuità fa tenerezza, ma le sue conseguenze sono nefaste per tutte quante.
È altresì poco credibile che lo stesso uomo-demone avesse la capacità di mutare il proprio aspetto fisico, tanto da apparire più vecchio o giovane. È più verosimile che si trattasse di più uomini, riuniti nel loro scopo, a presentarsi con lo stesso nome per far credere alle donne di essere la stessa persona, magari dotata di poteri soprannaturali.
Un’altra possibilità la offre Anna Marcaccioli Castiglioni:
“Non crediamo che i due uomini di Caterina siano la stessa persona; pensiamo invece che le esperte compagne usino questa astuzia per prepararla, anche psicologicamente, a quella libertà sessuale che la partecipazione al sabba richiedeva.” (2)
Mi sento comunque di riconoscere completamente la considerazione della stessa autrice in merito a questi uomini-demoni, poco demoni e molto uomini:
“Naturalmente nei processi non troviamo traccia degli uomini che prendevano parte al sabba. Del resto, convinti come erano gli Inquisitori che si trattasse non tanto di uomini quanto di demoni, sarebbe stato veramente impossibile, anche per l’Inquisizione, mettere sotto processo e condannare al rogo gli stessi demoni i quali, secondo l’iconografia religiosa, di roghi ne dovevano capire più dell’Inquisizione stessa e non potevano essere spaventati da questa probabilità, visto che il fuoco è il loro elemento naturale. Comunque fosse, anche se le donne dichiarano che “prendevano parte al ludo tante donne quanti demoni”, non risulta che a qualcuno fosse mai venuto in mente che non di demoni si trattasse, bensì di uomini in carne e ossa i quali altro non facevano se non spassarsela beatamente con delle donne pienamente convinte che fossero demoni.
Mi chiedo se mai un uomo abbia mai avuto una copertura migliore di questa per sfuggire alle proprie responsabilità.” (3)
Se le cose stessero in questo modo, in diversi luoghi e situazioni – ed è più credibile della presenza di demonucoli dall’aspetto fin troppo banale e insignificante – si dovrebbe iniziare a prendere in considerazione il fatto che molte streghe che partecipavano ai sabba, ed erano costrette o consenzienti a servire, compiacere sessualmente e ubbidire ai loro demoni, o al diavolo stesso, siano state vittime di uomini imbroglioni e prevaricatori prima ancora di conoscere quelli ancora peggiori che, dopo averle ridotte allo stremo con la tortura, le avrebbero infine messe al rogo.
Certo, non in tutti i processi questo elemento pare chiaro come in questo relativo alle streghe di Venegono Superiore, ma in molti casi questa potrebbe rivelarsi una diversa luce sotto la quale guardare la storia delle streghe e del loro, spesso infausto, destino.
***
Da uomini a demoni. L’inevitabile inganno
Proseguendo con la riflessione sulla natura degli uomini-demoni che compaiono nel processo alle streghe di Venegono Superiore – così come in molti altri processi simili – vorrei sottolineare alcuni passaggi interessanti nei quali si deduce il momento preciso in cui gli uomini – che uomini sono – diventano demoni – premesso che non sapremo mai se le donne imputate li considerassero già tali, quando li frequentavano, o se vennero spinte dall’inquisitore – che non li aveva mai considerati diversamente – a ritenerli dei diavoli, e per compiacerlo aggiunsero via via particolari sempre più diabolici per accontentarlo ed evitare i tormenti della tortura.
Inizialmente, il famoso Martino risulta essere, dalle confessioni di Caterina Fornasari e di altre imputate un semplice uomo. È descritto chiaramente come un uomo normale, lavoratore, di mezza età, con un abito corto, scuro o nero. Nella descrizione di Maddalena del Merlo, egli portava anche “un berretto nero e un poco di barba” (1). Forse quella notte aveva freddo e non si era rasato, o a impersonare Martino era un altro uomo, come era già capitato a Caterina.
Come scrive Anna Marcaccioli Castiglioni, “Certo che il ripetersi di questo nome non può che lasciarci incuriositi. O tutti gli uomini-demoni si chiamavano Martino, o, molto più probabilmente, questo era un nome di comodo.” (2)
In entrambi i casi, siamo ancora di fronte a un uomo, o a più uomini che si fanno passare per lo stesso uomo.
Se nell’interrogatorio di Caterina Fornasari, la donna descrive ingenuamente un uomo, e alla domanda subdola postale dall’inquisitore risponde candidamente che “non aveva capito che fosse un demone”, in quello di Tognina del Cilla, l’inquisitore spinge la donna laddove lui vuole arrivare.
Secondo la testimonianza, Elisabetta degli Oleari le promise “di farle conoscere un bel uomo”, quindi, interrogata sul nome dell’uomo che incontrò, Tognina risponde “Martino, di mezza età.” A questo punto l’inquisitore rivela il suo scopo:
“Interrogata, se le è sembrato che lui avesse forma umana, o se invece le parve un demonio, risponde: che al momento le è sembrato che avesse un corpo umano.”
Le donne parlano di uomini, l’inquisitore cambia registro, e parla di “forma umana”, spingendo l’imputata, che cerca di seguirlo, a cadere nel tranello. Adesso l’uomo è diventato un demone “dal corpo umano”.
Nell’interrogatorio successivo, Tognina del Cilla, ormai parte – consapevole o inconsapevole, non possiamo saperlo – del tragico gioco, aggiunge anche che “dopo aver calpestato la Croce e aver rinnegato Dio, la fede cattolica, il Battesimo e gli altri Sacramenti, come ha già detto, Martino le ha preso la mano sinistra portandosela dietro alla schiena e lei con questo gesto lo ha accettato come suo dio, signore, padrone e amante.” Precisa quindi che “ha dato la mano al demonio, il quale si trovava lì in forma umana (…).” (3)
L’uomo è diventato a tutti gli effetti un demonio anche agli occhi di Tognina, seppur sempre “in forma umana” – dal momento che, di certo, altre non poteva averne.
Questi passaggi mettono in risalto la manipolazione dell’inquisitore, il suo ingannevole prospettiva che mette in difficoltà le donne, le quali credono alle sue parole e, a loro volta cambiano anche la loro di prospettiva.
Come detto, non è possibile sapere se le imputate ritenessero Martino un demone prima del processo. La loro prima reazione lascerebbe intendere di no. Ma più si va avanti, più i dettagli diabolici aumentano, in un crescendo di confessioni sconcertanti che porterà le donne – che forse speravano di salvarsi – al loro triste epilogo.
Mi chiedo se il famoso Martino, e i suoi compari, fossero presenti all’esecuzione delle sette donne che, di certo, ben conoscevano. Se ne abbiano provato pietà, o freddezza, compiaciuti di non aver corso alcun pericolo. Del resto, a nessun inquisitore è mai interessato scoprire la verità. L’unica “verità” cercata, è sempre stata quella voluta, e quindi manipolata, estorta e, con ogni mezzo, ottenuta.
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Note:
1. Cfr. Anna Marcaccioli Castiglioni, Streghe e Roghi nel Ducato di Milano. Processi per stregoneria a Venegono Superiore nel 1520, pagg. 87-89.
2. Ibidem, pag. 45.
3. Ibidem, pagg. 38-39.
4. Ibidem, pag. 157.
5. Ibidem, pag. 58.
6. Ibidem, pag. 137.
Bibliografia
Marcaccioli Castiglioni Anna, Streghe e Roghi nel Ducato di Milano. Processi per stregoneria a Venegono Superiore nel 1520, Thelema Edizioni, Milano, 1999
Merlo Grado Giovanni, Streghe, Società editrice il Mulino, Bologna, 2006
Zangarini Chiara, Elisabetta degli Oleari strega, Pietro Macchione Editore, Varese, 2024
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Riflessioni e testo di Laura Rimola. Nessuna parte di questo testo può essere riprodotta o utilizzata in alcun modo e con alcun mezzo senza il permesso scritto dell’autrice e senza citare la fonte.
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